venerdì 22 maggio 2009

6° Biblico: L'indemoniato Gerasèno

Appunti dell'incontro biblico del 22/05/09 con don Cesare Pagazzi
Incontro biblico con gruppo fuci di Crema: L’indemoniato gerasèno (Mc 5, 1-20)



L’episodio narrato dall’evangelista Marco ci presenta il caso di un «personaggio minore» dai tratti particolarmente interessanti: un uomo della città di Gerasa, posseduto da uno spirito impuro, viene liberato da Gesù attraverso le fasi di un’impressionante vicenda di esorcismo.

Per quanto riguarda il contesto socio-culturale entro cui avvengono i fatti, si può dire che la montagnosa area gerasèna, situata a circa 50 km dal lago di Tiberiade, fosse una fascia di territorio strettamente abitata da pagani, e prova ne è la presenza dei mandriani con numerose mandrie di porci, ossia di animali la cui carne è ancora oggi proibita al consumo di ogni ebreo osservante.

Nel giro di pochi e scarni versetti, Marco delinea un quadro psicologico di interazione altamente raffinato. In primo luogo colpisce il dispiegarsi dei sintomi che pongono l’uomo posseduto e sconvolto al cospetto di Gesù: incapace di abitare una casa e di vivere un legame affettivo stabile con le persone e con le cose, il gerasèno ha infatti per dimora un andirivieni desolato per i sepolcri e pare proprio per questo aver perso ogni cognizione di luogo e di tempo. Indomabile a qualsiasi riferimento della vita associata, l’uomo non fa che agitarsi in modo ossessivo, continuando a vagare «giorno e notte», senza requie, fra i sepolcri e sui monti, ossia da una bassezza di umore tombale ad un’euforia effimera, tragicamente volubile. Contrariamente a quanto si è soliti pensare, in questo brano appare evidente che l’indemoniato sia in grado di fare più male a se stesso che ad altri: Marco ce lo presenta mentre grida e si percuote a sangue con pietre, mentre accorre e si getta ai piedi di Gesù supplicandolo a gran voce… di non tormentarlo! Sconcerta infatti notare che l’uomo posseduto, invece di fuggire l’arrivo di Gesù, gli si fa incontro non appena lo vede e lo riconosce infine come «Figlio del Dio altissimo», capace di scuotere e di alterare con la sua sola presenza i tormenti lancinanti imposti dallo stare al mondo senza appartenere a legami, a radici.

Pur rappresentando un caso estremo, l’esistenza dell’indemoniato di Gerasa può essere presa a modello per interrogarci su alcuni aspetti alquanto problematici e complessi della nostra vita di «credenti e praticanti»: come viviamo i nostri legami con le persone e con le cose, con la nostra casa? Siamo capaci di lasciarci addomesticare dalla terribile disciplina degli affetti? Viviamo lo studio, lo sport, alcuni legami come aspetti ossessivi della nostra vita? Ricadiamo spesso in rituali di auto-punizione? Ci diciamo credenti solo perché sappiamo alcune cose di Gesù? Mercanteggiamo nella relazione col Signore, ossia ci diciamo credenti al patto di «essere lasciati in pace» su alcune questioni che ci toccano sul vivo?

Di fronte all’accostarsi violento dell’indemoniato, Gesù domanda il nome. A rispondere è lo spirito impuro, Legione, che scongiura, a causa del gran numero, di non essere cacciato dalla regione ma di essere piuttosto mandato a straziare nel pascolo poco distante una mandria di duemila porci. Gesù acconsente alla bizzarra richiesta e la mandria di porci, oramai posseduta, precipita dal dirupo in mare, affogando. L’intera città di Gerasa viene allora messa in agitazione dall’allarme lanciato dai mandriani e tutta la gente si reca presso il luogo dell’esorcismo: al vedere l’uomo che era stato posseduto dalla Legione «vestito, seduto e sano di mente» provano paura e con ferma decisione invitano Gesù ad andarsene dal loro territorio. Per quale motivo i concittadini del gerasèno reagiscono alla sua liberazione scacciando Gesù? Forse perché anche loro, in un modo più enigmatico e pacato, sono indemoniati nel profondo e forse perché la buona notizia di una guarigione avvenuta non fa che tormentare le smanie represse di chi pure si atteggia a cittadino normale.

Tuttavia, mentre si allontana da Gerasa, Gesù non permette all’uomo che ha appena salvato di seguirlo. Piuttosto, gli indica la strada per tornate a se stesso, alla sua casa, alle relazioni con la sua gente. Quasi a dire che non c’è mandato missionario verso il mondo esterno che non parta dalla presa di coscienza degli affetti e degli affanni che ci costituiscono, che conferiscono senso di appartenenza, di abitudine e di stile alla nostra identità, ogni volta che teniamo casa nostra come centro di irradiamento a cui tornare per attingere la Parola del Signore fatta carne.

Monica Guida

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