Pubblichiamo un resoconto del ritiro spirituale che la Fuci lombarda ha vissuto, come da tradizione nel tempo di Quaresima, lo scorso fine settimana al rifugio "Madonna delle Nevi" di Mezzoldo (BG). Il contributo è stato scritto da Ilaria Pisa del gruppo Fuci di Pavia.
In Quaresima, il ritiro spirituale al rifugio "Madonna delle Nevi" di Mezzoldo (BG) è ormai un appuntamento immancabile per la Fuci lombarda. Al piacere di ritrovarsi s'unisce l'efficacia di una formula di due giorni di meditazioni bibliche, guidate da un sacerdote, che sceglie il tema ed il taglio da conferirvi. Le riflessioni si alternano ai momenti di silenzio necessari alla meditazione personale, in una cornice temporale scandita dalla Liturgia delle Ore e dall'Eucaristia.
Ad accompagnarci quest'anno, insieme al nostro Assistente regionale don James Organisti, è stato il patrologo don Emilio Contardi, Professore all'ISSR delle Diocesi di Cremona, Crema e Lodi; il tema da lui prescelto, "La violenza di Dio". Un argomento che siamo obbligati dallo stesso testo biblico ad affrontare, trattandosi d'un filone che lo percorre tutto, ed è oggi utile per evitare semplicistiche contrapposizioni tra "religioni della mitezza" (come sarebbe il Cristianesimo) e "religioni della violenza" (quali ad esempio l'Islam).
Ciò che rende "sorprendente" il Dio del Cristianesimo non è l'operare, nel messaggio neotestamentario, una "conversione" rispetto alla rivelazione dell'Antico Testamento, ma "fare la differenza", uscire dall'indifferenza che talora attribuiamo a Dio, rivelandoSi iroso, passionale e non neutrale, né sempre alla ricerca di una riconciliazione con l'uomo; quest'ultimo è spinto ad uscire dall'ingenuità della fede, per arrivare addirittura alla "polemica" con Dio.
Cinque i brani prescelti per accompagnare la riflessione: il sacrificio di Isacco (Gn 22); l'oscuro episodio del tentativo di Dio d'uccidere Mosé (Es 4, 24); la morte dei primogeniti d'Egitto (Es 12); l'ira divina descritta da San Paolo in Rm 1; la "condanna" espressa da Gesù nella parabola dei talenti (Mt 25).
- L'"affidamento solitario" (Kierkegaard) di Abramo a Dio, che lo "mette alla prova", rende la sua figura quasi tragica; può Dio trovarsi in una contraddizione grande come donare il figlio desiderato e poi richiederlo in sacrificio? Eppure Dio rivolge al Patriarca un'ambigua parola, gli fa violenza, ed egli obbedisce, ma non in modo cieco. Fino all'ultimo, aspetta "un'altra parola" di Dio, e quando essa giunge, è l'"eccomi" di risposta a testimoniare la sua vera fede, ben più dell'essere disposto ad immolare il figlio. Ad essere sacrificato è infatti poi l'ariete (che, in quanto "padre" dell'agnello, è simbolo di Abramo), impigliato per le corna (la forza feconda): Abramo immola il carattere possessivo della propria paternità. La "prova" non ha mai un esito predeterminato, Dio non ha preveggenza sulla storia della nostra fede: il momento di "buio" va sempre vissuto in dialogo con Dio, certi che Egli non smentirà il Suo dono.
- Pare che Mosé stia per essere ucciso da Dio proprio quando, tornando di malavoglia in Egitto, si appresta a riprendere la sua missione: quale il significato di un simile episodio? Probabilmente, simbolico: la missione di Mosé sarà infatti espletata a rischio della vita, ed implicherà lo spargimento di sangue innocente, di sangue infantile, come suggerisce la salvifica circoncisione del figlioletto operata da Sephora, la moglie di Mosé, come una sorta di sacrificio vicario. E' solo la forza della donna, la forza della vita che alberga in lei, a stornare l'ira divina, l'aspetto oscuro di Dio, la cui strage dei primogeniti è in tal modo evocata.
- La decima piaga d'Egitto è uno dei passi più problematici di tutta la Bibbia. La catechesi contemporanea, che privilegia l'immagine misericordiosa di Dio al punto di farne una "iperaffermazione" buona a consolarci dei fallimenti personali, sovente "glissa" sul commento alla morte dei primogeniti; e se, ai nostri occhi, la morte dei figli dei nemici può apparire in qualche modo giustificata, per Dio il problema morale di questa extrema ratio, adottata per convincere il Faraone, sussiste. Le "armi" di cui Dio si è fino a quel momento servito sono deboli, "spuntate": il "tallone d'Achille" divino fa cessare le piaghe quando Mosé s'impietosisce. E' per questo che, all'ultimo, Dio "deresponsabilizza" gli uomini, inviando lo "sterminatore" (una sorta di Suo misterioso "doppio"!) mentre il popolo è tenuto a compiere un altro rito, un frettoloso pasto che lascia sull'architrave segni di sangue, a testimoniare che la liberazione d'Israele lascia dietro di sé uno strascico tragico, il pagamento di un alto prezzo in termini di vite innocenti; al contempo, il sacrificio dell'agnello pasquale immola un cucciolo, dunque il futuro del "gregge", del popolo di Dio. "Immolare il proprio futuro" significa la disponibilità a Dio ed alla partenza ch'Egli ordina, l'offerta dell'impegno nel futuro di Dio, che ci accompagna. Israele è in debito per le innocenze sacrificate in nome del suo bene, e la ripetizione rituale della Pasqua lo ricorda. Un fatto di sangue, luttuoso, ha coinvolto Dio, la Sua immagine è stata "deturpata", dunque il popolo è anzitutto in debito con Dio, e dovrà recuperare la sua innocenza, per poter ritrovare "l'innocenza di Dio".
- Perché San Paolo descrive un Dio irato? Perché l'unica società che "non s'arrabbia mai", la società irenica, paga l'alto prezzo dell'esclusività: questo suscita l'ira divina, dacché la fede è inclusiva, non esclusiva. Il dies irae che solvet seclum in favilla può non piacerci, ma può beneficiare altri, chi non gode del sistema presente, chi desidererebbe la distruzione di una programmazione escludente del mondo. Il pensiero di quante persone non possono lodare il Signore, a motivo della propria disperata condizione, attualizza molto le parole dell'Apostolo. Egli denuncia che noi non siamo un "occhio neutro", capace di riconoscere la gloria di Dio nella creazione (dunque anzitutto in noi stessi), ma idolatrizziamo riproduzioni di Dio che sono autoriproduzioni fatte a nostra immagine, "dèi-fotocopie" alla cui schiavitù veniamo "abbandonati" da Dio (l'omosessualità, nel brano paolino, diviene parabola di quest'autoreferenzialità). L'ospitalità nei confronti di Dio può solo avvenire attraverso l'inclusione dell'alterità: Dio va accolto Altro da sé, ed in quanto tale "resiste" alla nostra immaginazione.
- L'immagine arcigna di Dio, restituita dalla parabola dei servi e dei talenti, si rende necessaria nell'ambito del discorso di Gesù "sulla fine dei tempi": senza quasi accorgersene, i discepoli hanno cominciato a parlare il linguaggio dei farisei - l'arrivismo, l'esclusivismo -, per cui il Signore tenta una via diversa dal "linguaggio dell'Abbà", e con grande finezza propone una parabola da cui emerge proprio, estremizzato, il Dio "voluto" dall'uditorio. Il criterio del padrone nel racconto è quanto mai arbitrario: quale libertà nel vedersi assegnati talenti "secondo capacità"? Quale il criterio di premio o condanna dell'operato dei servi? Di fronte all'arbitrio divino, la misura delle richieste ci sfugge. Gli ascoltatori sono provocati: è questa la giustizia, l'ortodossia di Dio? Gesù vuol giungere ad una "riprovazione" dell'agire di Dio così descritto: Egli desidera che nessuno parli di Dio in questi termini. Gesù porterà nella tomba proprio il Dio farisaico, che si è "giocato la credibilità" mettendo in croce un innocente; farà risorgere il Dio della fedeltà incondizionata; "salverà" non solo noi, ma anche Dio...dalle immagini distorte che possiamo farci di Lui.
Ilaria Pisa
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