lunedì 5 novembre 2007

2° Culturale: Rianimazione e bioetica

Appunti dell'incontro culturale del 26/10/07
con il dott. Costantino Bolis

Il secondo esperto che è intervenuto ai nostri incontri culturali di bioetica è specializzato in anestesia e rianimazione. Scontato dire che le decisioni più difficili e più importanti sono intrinseche a questa disciplina (ne comprende molte altre: terapia del dolore, 118…), attività per altro privilegiata per quanto riguarda l’osservazione quotidiana delle questioni etiche. Decisioni che diventano scelte. Qui la quotidianità si scontra con l’etica. Con la scelta. Ogni settore, a sua volta, si scontra con problematiche diverse, con richieste diverse: in rianimazione il rischio imminente è l’accanimento terapeutico, non presente, per esempio, durante gli interventi che riguardano l’anestesia.
La decisione, la scelta presuppone sempre una domanda o, spesso, più domande. Sono quindi le domande, e le risposte che diamo loro, a guidarci.

* È etico prolungare la vita di una persona, alterandone la coscienza, per evitare che soffra dolori atroci, o lo è, lasciare che muoia il prima possibile con enormi sofferenze?
Togliere il dolore senza alterare la coscienza non è un problema da poco.

* Con un paziente in stato vegetativo persistente, qual è l’approccio da adottare? Dargli da bere e da mangiare ha ancora senso?
Ricordiamo qui di seguito la differenza tra coma e stato vegetativo permanente.
Il coma è uno stato di non reattività, gli occhi sono chiusi e si prolunga per un periodo limitato che varia dai due ai tre mesi, cui fa seguito la morte o l’apertura degli occhi che segna il risveglio e la ripresa della vita di relazione con diversi gradi di handicap e lesioni (lieve, moderato, grave) oppure, nei peggiori dei casi, evolve in uno stato vegetativo permanente. Le possibilità di ripresa sono inversamente proporzionali al tempo di permanenza nello stato vegetativo; il tempo diventa quindi una variabile importantissima.
Nello stato vegetativo permanente la persona sembra percepire e seguire ciò che la circonda, sicuramente deglutisce, si scarica… le sue funzioni sono comunque presenti, molto ridotte e certamente primitive. Ma la domanda che tanto ci tormenta e tormenta soprattutto famigliari e medici è “Ma capisce o non capisce?”. Domanda a cui non ci è dato conoscere la risposta.

* Altra domanda che nasce di conseguenza: qual è la definizione di morte?
Morte è la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. L’encefalo, semplificando, è costituito da tre grandi parti: tronco cerebrale, cervelletto e cervello. Se ad essere lesa è la zona corticale e il suo funzionamento viene alterato, totalmente o parzialmente, è la vita relazionale ad essere compromessa ma le altre zone cerebrali sono funzionanti quindi la persona è attiva e viva. Lo stesso discorso vale anche se fosse solo una delle tre aree a funzionare, anche fosse quella adibita alle funzioni più primitive, il tronco dell’encefalo.

* Ecco all’ora altre domande, ancora più difficili e amare: ma è vita quella che costringe ad una vita di non relazione? È vita la riduzione della medesima a quelle attività puramente fisiologiche? È vita quello che esula dalla personale definizione e concezione di essa?
L’accertamento della morte encefalica e il problema dell’espianto degli organi è un altro cardine a cui l’etica ruota attorno. Il livello della richiesta di eutanasia è tanto più alto quanto più le cure sono deficitarie; la mancanza di supporto famigliare e del paziente stesso sono variabili importantissime, spesso la famiglia è lasciata sola, il volontariato non esiste, le strutture si limitano al mero servizio… Servirebbe, inoltre, un’umanizzazione delle cure: rendere più umano il rapporto medico-paziente, che vada oltre la semplice cortesia (che è il minimo!).
Deve esistere un’alleanza medico-paziente, alla cui base c’è una disponibilità ed un dovere costante alla somministrazione delle cure di base, esse non sono mai negate nemmeno quando si ritiene di non intervenire dal punto di vista della rianimazione, il non-intervento non significa mai abbandono terapeutico.
Il vero problema di questa area della medicina non riguarda la manualità, la tecnica (che pure è fondamentale, come in chirurgia, ad esempio), riguarda piuttosto le scelte di rianimazione, come se i medici fossero i giudici di chi deve continuare a vivere e chi invece morire, come se la domanda implicita fosse “Ne vale la pena?”. E la risposta non è sempre chiara ed eclatante, come quando ci si trova davanti un giovane a cui non si nega niente, non ci sono esitazioni nell’intervenire, si tenta il “tutto e per tutto”. La maggior parte dei casi, quelli di tutti i giorni, sono ben più sfumati e sottili, più numerosi. I casi eclatanti, quelli di stato vegetativo permanente ad esempio, non sono molti, o comunque sono la grande minoranza; nella quotidianità degli ospedali esiste una zona grigia ben più silenziosa, ma non per questo meno di valore.

* Quali sono, dunque, le tecniche di rianimazione?- qualcuno ha chiesto.
La risposta data non è stata di tipo tecnico, ma subito collegata ad un’altra questione sempre sul filo del rasoio, come se ogni domanda fosse l’anello di una catena molto più lunga,forse infinita. Come poteva non sfociare nel rischioso ambito dell’accanimento terapeutico e all’uso/abuso dei mezzi tecnologici? Il concetto di straordinarietà di uno strumento cambia inevitabilmente con il passare del tempo e con il conseguente sviluppo della tecnologia. Sviluppo che presuppone miglioramento e sofisticatezza, sempre maggiore, che spinge inevitabilmente ad un senso di potere, poter fare, poter comunque tentare ma che nasconde il rischio, sempre all’agguato, di una certa onnipotenza che porta a dire “Tento ugualmente”, dimenticando forse tante altre cose, tanti altri limiti.

* E quali sono i criteri di scelta per decidere se rianimare o no?
Esistono certamente criteri oggettivi, tuttavia non possono essere assolutizzati, soprattutto in situazioni di frontiera. La variabile “caso singolo” è ciò che fa la differenza, al contrario dell’età, che presa di per sé, non rappresenta nessun criterio lecito per decidere.
Un criterio oggettivo può essere la demenza, riportata dall’anamnesi o dalle parole dei famigliari.

* Ma come non tenere in considerazione la complessità della natura umana, degli abissi oscuri che porta con sé, intrisi di possibili sensi di colpa per chi resta o semplice o legittimo egoismo? …E quando le parole dei famigliari non sono attendibili? Come testarle?

Dal punto di vista emotivo è più d’impatto interrompere un trattamento, ma dal punto di vista etico, invece, non vi è alcuna differenza tra il non iniziare e l’interrompere un trattamento.

Infine,ma brevemente (potrà essere argomento di un ulteriore incontro), il tanto discusso testamento biologico. Di per sé è un finto problema per i pazienti coscienti: per essi esiste già il consenso informato; può esserlo, eventualmente, per quei pazienti in stato vegetativo. Tuttavia per i primi subentrano una serie di altre fini problematiche da non sottovalutare, dall’illusione di una pronta e veloce guarigione, sminuendo la gravità della malattia, fino alla totale sottrazione di speranza anche per un piccolo recupero.

Chiara Augusta Galmozzi

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