giovedì 29 novembre 2007

3° Culturale: il "Testamento" biologico

Appunti dell'incontro culturale del 23/11
con il dottor Marco Farina, nefrologo


Il 23/11, in occasione dell' incontro culturale di bioetica, il dottor Marco Farina (nefrologo presso l'ospedale di Lodi) è stato invitato a precisare i termini della questione relativa al cosiddetto "testamento biologico", in merito alla quale sussiste una notevole confusione, sia a livello antropologico sia a livello semantico - terminologico.

Per confusione antropologica si intende lo smarrimanto dell'uomo moderno, reso astemico da ragioni che rendano la sua esistenza ricca di significato. L'uomo è pressato dalla superficialità dei luoghi comuni, che diventano sentire comune; ha tuttavia il compito di difendere il proprio presente, il proprio futuro e quanto c'è di buono, bello e positivo nella sua vita. Per poter far questo è indispensabile approfondire e ampliare il dibattito sulle problematiche bioetiche (che riguardano soprattutto inizio e fine vita).
Non si può infatti concentrarsi solo sulla dialettica biologica e ridurre l'uomo a DNA, a qualcosa che è conoscibile, analizzabile, dunque posseduto e manipolabile. Non si può scadere in quello che viene definito "riduzionismo materialistico", perchè l'uomo non è oggetto, ma mistero, di fronte al quale occorrono una grande apertura di vedute e capacità di osservazione.
Alexis Carrel, padre della trapiantologia, ha affermato che poca osservazione e molto ragionamento conducono all'errore, ma molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità. Critica quindi la nostra epoca in cui si assiste al trionfo dell'idealismo, spesso fine a sè.
Proprio la capacità di osservazione, volendo, diventa occasione di domanda. Si pensi, ad esempio al Salmo 8: "Che cos'è il figlio d'uomo perchè di lui ti prendi cura?"
La questione quindi è ripartire dalla domanda e prendere posizione dinnanzi alle problematiche connesse alla vita e alla morte.

Poste le premesse antropologiche, è necessario andare a chiarire la confusione semantica nata attorno alla dicitura impropria di "testamento biologico".
Il termine proviene dal mondo anglosassone e viene fondato nel 1967, quando per la prima volta parla di "living will" = disposizione di volontà.
Nascono successivamente altre definizioni per indicare lo stesso concetto: "durable power" = mandato di procura permanente per la salute, "DNR = do not resuscitate order" = manovre per i pazienti che non devono essere rianimati.
In italiano ne deriva appunto "testamento biologico", cioè un insieme di direttive comportamentali, espresse da un soggetto, quando ancora capace di intendere e volere, perchè vengano seguite dai medici in caso di malattia grave o terminale del soggetto stesso.
Ma la parola testamento implica che le disposizioni siano riferite a una persona già morta e che inoltre siano coercitive per i medici curanti, per questo, in italiano, il vecchio "testamento biologico" è stato sostituito dal più appropriato "dichiarazioni anticipate di trattamento".

Le dichiarazioni anticipate dovrebbero aver valore solo per quanto riguarda l'orientamento comportamentale dei medici e non dovrebbero trasformarsi in ordini tassativi.
Infatti, al momento della loro stesura, lo stato d'animo del soggetto difficilmente corrisponde a quello, anche radicalmente mutato, del momento della malattia.
Bisogna poi tenere presente che sistemi diagnostici e terapie evolvono nel tempo, è quindi inutile e rischioso esprimere dichiarazioni anticipate sulla base della conoscenza di metodi e cure continuamente rinnovabili.
I medici infine sono chiamati ad applicare mezzi proporzionati nella cura di un paziente, considerandone costi, benefici e opportunità. Sono chiamati parimenti ad evitare l'accanimento terapeutico, ossia l'uso di mezzi sproporzionati, ed anche l'abbandono terapeutico, cioè la sospensione delle terapie sulla base della sensazione di accanimento; questo infatti non è altro che l'anticamera dell'eutanasia omissiva -un'azione o omissione che per sua natura, nelle intenzioni, determina la morte del soggetto, al fine di bloccarne il dolore.
Lo scopo del medico è in definitiva la perseveranza terapeutica: mantenere il malato in vita con mezzi proporzionati (di mezzi proporzionati e sproporzionati si parla tra l'altro in un documento del 1990 redatto dalla Congregazione per la Dottrina della fede). Per tutti questi motivi, l'azione del medico non dovrebbe essere limitata da disposizioni vincolanti (che nella maggior parte dei casi finiscono per corrispondere a richieste di eutanasia), anche se recenti sviluppi in campo legislativo non escludono univocamente questa possibilità.

Si consideri, ad esempio la vicenda di Eluana Englaro: due corti di cassazione stabilirono che idratazione e alimentazione sono terapie e che, in quanto terapie, avrebbero potuto essere sospese, come richiesto da questa donna, prima di entrare in stato vegetativo permanente.
Lo stato vegetativo permanente consiste nella morte corticale (cioè della parte superiore dell'encefalo) del soggetto, che perde definitivamente coscienza, ma rimane comunque in grado di svolgere tutte le funzioni vitali.
Alcune correnti di pensiero sostengono che la morte corticale corrisponda a morte vera e propria, o morte irreversibile (che sarebbe però morte cerebrale totale, non solo corticale) e che idratazione, alimentazione, rimozione delle deiezioni fisiologiche siano terapie all'occorenza sospendibili e non assistenza umana dovuta.
E' opportuno tuttavia essere cauti nel considerare coloro che versano in stato vegetativo "non - persone".
Nel noto caso di Terry Schiavo, la sospensione delle cure assistenziali comportò accelerazione del battito cardiaco, del respiro e altri segni che indicavano inequivocabilmente sofferenza del soggetto, all'apparenza del tutto insensibile.
Inoltre, come è stato accertato da diversi esperimenti, è probabile che permanga in questi malati una parziale e debole coscienza della realtà circostante, ma ancora non è dato sapere a quali livelli.

Per concludere, il rischio delle dichiarazioni anticipate è quello di essere anticamera dell'eutanasia.
La richiesta di morte da parte di un malato non deve però venir letta nè più nè meno che come una richiesta di aiuto a cui rispondere con una vicinanza umana sincera e partecipe e con un continuo incoraggiamento.
Occorrrono il sostegno della famiglia e ancor prima quello dei medici, che sono tenuti a instaurare un rapporto di fiducia con il paziente al fine di di condurlo ad una guarigione o una conclusione della vita serena, che diventi possibilmente occasione di riflessione e recupero e consolidamento delle relazioni interpersonali.

Angelika Ratzinger


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