con don Cesare Pagazzi
La casa come strumento di formazione della propria identità
Culla o Casa?
Non si pensa spesso al fatto che la stessa vita umana ha origine in una casa: il corpo della madre. Si tratta di un ambiente ideale, che garantisce una perfetta “continuità di cura” (cioè nutrimento, calore, protezione...) e consente all'embrione di svilupparsi.
Dopo la nascita, uno dei compiti fondamentali cui la madre adempie è far sì che questa continuità persista. Questo risultato si ottiene in due modi: fornendo affetto e supporto al bambino, e adattando a lui l'ambiente che lo circonda, in modo che sia il più possibile simile a quello cui era abituato (il grembo materno). Il bambino comprende così l'attendibilità della madre, impara a fidarsi di lei, si aspetta di vederla apparire quando la chiama.
Naturalmente una situazione simile è corretta solo nelle primissime fasi della vita, e quindi successivamente la madre inizia a mettere il bambino direttamente a contatto con l'ambiente esterno, rappresentato in primo luogo dalla casa: è questa la seconda grande maestra di vita, che gli insegna a fidarsi di alcune realtà (il pavimento è stabile) e a capire certe leggi immutabili (per raggiungere la finestra deve percorrere sempre x metri). Insomma, in casa si costruiscono le nostre certezze, le nostre abitudini (parola che, per inciso, ha la stessa radice di abitare), relative anche al mondo esterno: è facile, una volta capite le regole che governano un certo sistema (la casa), estenderle anche a altri sistemi affini.
Detto questo, proviamo ora a comprendere il pensiero di quattro intellettuali che si sono occupati per aspetti diversi della casa e dell'abitare.
Lo psicologo Donald Woods Winnicott (Plymouth, 7 aprile 1896 – Londra, 28 gennaio 1971) sosteneva che l'ambiente in cui trascorriamo i primi anni di vita, inteso come spazio fisico e relazioni umane, è ciò che più forma la nostra personalità. Una “delusione ambientale”, cioè un venir meno della stabilità e del rapporto di fiducia, può essere causa di comportamenti asociali, di risentimento nei confronti del mondo e al limite di azioni criminali. Se al contrario il rapporto con l'esterno funziona, si riesce a costruire una specie di “casa interna”, che permette di essere a proprio agio in qualsiasi situazione, come del resto aveva già intuito l'autore della lettera agli Ebrei (cap. 3): “[1] Perciò, fratelli santi, partecipi di una vocazione celeste, fissate bene lo sguardo in Gesù, l'apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo, [2] il quale è fedele a colui che l'ha costituito, come lo fu anche Mosè in tutta la sua casa. [3] Ma in confronto a Mosè, egli è stato giudicato degno di tanta maggior gloria, quanto l'onore del costruttore della casa supera quello della casa stessa. [4] Ogni casa infatti viene costruita da qualcuno; ma colui che ha costruito tutto è Dio. [5] In verità Mosè fu fedele in tutta la sua casa come servitore, per rendere testimonianza di ciò che doveva essere annunziato più tardi; [6] Cristo, invece, lo fu come figlio costituito sopra la sua propria casa. E la sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza di cui ci vantiamo.”
Martin Heidegger (Meßkirch, 26 settembre 1889 - Friburgo in Brisgovia, 26 maggio 1976) fu il primo a riconoscere dignità filosofica all'abitare. Nel 1927, in “Essere e tempo”, sostenne che l'uomo era stato gettato nel mondo, luogo a lui ignoto e perciò fonte di una terribile angoscia: il costruire una casa sarebbe stato quindi un tentativo di attenuare questa angoscia “addomesticando” una parte di mondo. In realtà, come si è visto all'inizio, noi abbiamo una casa ancora prima di nascere, mentre le “abitazioni esterne” non possono essere costruite che con elementi del mondo (e sarebbero, quindi, altrettanto estranee): lo stesso Heidegger sentì la necessità di mitigare la propria posizione, affermando che il mondo è già abitabile, e solo questo ci permette di costruire qualunque cosa (Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, 1954).
Zygmunt Bauman (Poznan, 19 novembre 1925) parte da una posizione particolare, osservando come la situazione di una città possa riflettere molto bene quella di una singola casa. Egli nota che in passato, in Europa, le città erano sempre fortificate, circondate da mura: queste creavano una netta separazione fra i “cittadini” e il resto del mondo. Quando le mura furono abbattute, fra il XVIII e il XIX secolo, contadini, allevatori, vagabondi iniziarono a penetrare nei centri abitati, incutendo paura e diffidenza negli abitanti: non esisteva più quella sicurezza che per secoli aveva tranquillizzato i cittadini, il “nemico” aveva ormai superato l'ultima difesa (ma non è forse quello che succede spesso ancor oggi con gli immigrati?). Negli Stati Uniti d'America, al contrario, fin dall'inizio furono costruite città aperte e multietniche, prive di mura: vi è sempre stata la disponibilità a vedere il diverso non come un nemico, ma come un ospite. Bauman traspone questa riflessione nell'ambito domestico: la paura più grande è il nemico nascosto sotto il nostro stesso tetto, magari sotto il volto di un familiare o di un amico; non vi sono più difese. La casa diviene allora teatro di un vero e proprio panico, e l'unica via di salvezza è la fuga. Senza arrivare a casi tanto estremi, Bauman considera anche il semplice (ma critico) dualismo-ambiguità tra il pubblico e il privato: il “pubblico” è talvolta considerato un rapace oppressore pronto a sottrarre spazio al privato, che da parte sua è ritenuto un temibile concorrente, nemico del bene comune.
Infine, Emmanuel Lévinas (Kaunas, 12 dicembre 1905 – Parigi, 25 dicembre 1995) in “Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità” (1980) parla di “ecumenicità della casa”. Questo termine – ecumene – deriva dal greco οι̃κος (casa) e significa “ciò che è abitabile”. È interessante notare come esso sia affine ad un altro, molto più conosciuto: economia. La parola “economia” (οι̉κονομία) può avere due significati etimologici: “legge della casa”, che implica che un qualsiasi sistema economico per funzionare bene debba essere fondato sulla fiducia di cui sopra, oppure “la regola che è la casa”, un criterio morale con cui verifichiamo che le nostre azioni siano compatibili con l'insegnamento della casa stessa (quindi siano attendibili, basate su rapporti di fiducia e lealtà).
Alberto Mattea
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