giovedì 12 febbraio 2009

Giovani precari o giovani uomini?



Dicono che siamo la generazione della precarietà - immersi in una società liquida, eccetera eccetera. E hanno anche ragione, chiaramente. Però non mi spiego tutto questo meravigliarsi: cosa c'è di tanto inusuale nel constatare che tutta la nostra esistenza è precaria?
Svariati secoli avanti Cristo c'erano già arrivati, ammettendo che solo un soffio è l'uomo che vive. Un attimo: è già passato. E accumula ricchezze e non si sa chi le raccolga (Sal 39). Il fatto è che l'esperienza ha sempre insegnato all'uomo: duramente, ma bene. Un po' come quei terribili professori che facevano sudare il sei, ma alla fine la materia la insegnavano davvero. Si può magari aver da ridire su come sia fatto il mondo - e il suo Creatore ci dovrà spiegare un bel po' di cosette, a suo tempo - però bisogna dire che la precarietà della vita è proprio una cosa semplicissima, facilissima da capire: basta guardarsi intorno. E se anche uno volge la testa dall'altra parte: wham!, la vita ci colpisce comunque: malattie, carestie, ed eventualmente anche morte.
Eppure,
forse per la prima volta dall'alba del mondo, in queste ultime generazioni l'uomo si era quasi sentito sicuro. Sarà stato il benessere; l'assenza di guerre che ci coinvolgessero da vicino; le allegre e ingannevoli cifre del PIL; il moltiplicarsi delle assicurazioni - furto incendio vita, tutto; la meravigliosa invenzione dell'undo, quell'"annulla ultima operazione" che chi usa il computer ha imparato ad apprezzare. Tante comodità che ci hanno illuso, ovattando i rischi del mondo e la nostra consapevolezza insieme. Il problema è che la precarietà dell'uomo rimane. Attenuata, forse, con i nostri medici e maniglie antipanico e backup dati, ma rimane. La morte rimane: è quel genere di nemico che l'uomo non è in grado di sconfiggere.
Forse allora il malessere della precarietà arriva da una disillusione. Pensavamo che il progresso riuscisse a risolvere tutti i nostri problemi; e invece.
Invece ci ritroviamo a barcollare di fronte a qualcosa di così comune come la morte; e siamo disorientati quando il nostro sistema sociale, in piena crisi, non riesce a garantire
a chi arriva adesso le condizioni e opportunità che solo pochi anni fa avevamo.
Proviamo allora ad aprire gli occhi e leggere con intelligenza ciò che la vita ci continua a raccontare: la nostra insufficienza. Motivo di depressione? Non per il cristiano, che proseguendo nel salmo scopre:
Ora, che attendo, Signore? In te la mia speranza. Speranza di un amore che riceviamo quotidianamente, e perché no: di una gioia futura. E possa questa speranza alimentare la consapevolezza di essere solo un soffio, facendoci abbandonare presunzioni e pretese sulla vita, in favore di quel pane quotidiano che il Padre non ci negherà (se davvero ci accontentiamo di quello); e possa questa speranza alimentare la consapevolezza di essere fratelli di tutti gli uomini: fratelli che non abbiamo scelto, semplicemente trovato. E però fratelli, con cui condividere ciò che di buono sappiamo e abbiamo della vita.


Francesco Grossi

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