Appunti dell'incontro Biblico con Don Cesare Pagazzi
Ci eravamo lasciati con l’incontro nel campo assiro di due figure a loro modo potentissime, il signore di eserciti Oloferne e la bellissima Giuditta.
Oloferne si dimostra subito diplomatico e pone Giuditta sotto la protezione del diritto, mostrando come il potere del re Nabucodonosor non sia dovuto solo alla forza delle armi, ma soprattutto a quella del diritto. Giuditta inizialmente risponde ad Oloferne adottando un linguaggio protocollare, quindi cerca di colpirlo nel suo punto debole: lo adula, riconoscendo la sua saggezza, la sua potenza, la sua esperienza e virtù militare, e in questo modo lo smaschera, facendolo apparire come è realmente, ovvero un gigante dai piedi d’argilla. Giuditta tocca così nel vivo l’animo di un uomo che non è così potente può sembrare al primo sguardo, in quanto bisognoso di conferme da parte degli altri.
La potenza, in qualunque ambito della vita, ha sempre bisogno di una conferma. Ciascuno ha bisogno di conferme, ciascuno insiste su ciò che ritiene vitale per se stesso. Si tratta di un meccanismo naturale, dunque positivo, ma spesso rischia di diventare qualcosa di ossessivo, una dipendenza. La ricerca di una conferma implica che non basto a me stesso, che anche la mia identità è ricevuta. Ma questa ricerca diventa cattiva quando si configura come una pretesa: la pretesa è la maschera di una debolezza, è il segnale che la persona non sa aspettare a ricevere, ma vuole scegliere da sé i modi e i tempi della conferma.
La conferma che si ricerca ossessivamente è visibile, quindi espone la propria debolezza agli altri. Giuditta utilizza abilmente questa arma contro Oloferne, che d’ora in poi farà tutto ciò che lei gli dirà. La ragazza spiega ad Oloferne di essere scappata da Betulia perché gli Israeliti, cinti d’assedio, hanno deliberato di dar fondo alle primizie da offrire al tempio, rendendosi passibili dell’ira di Dio. Lei, invece, si è mantenuta pura e ha deciso di scappare, mettendosi al servizio del nemico. Chiede solo che Oloferne le permetta di uscire ogni notte dall’accampamento con la sua ancella per pregare Dio e sapere quando il popolo di Isralele si sarà reso impuro, perché quello sarà il momento giusto per attaccare. Tutto ciò fa parte di un preciso piano di Giuditta, che si dimostra una donna tattica, perché sa mettere in ordine le cose che le servono: ha elaborato un progetto e sfrutta le debolezze di Oloferne per realizzarlo.
Il quarto giorno Oloferne, sicuro di sé e invaghito della bellezza di Giuditta, ordina di organizzare un banchetto e di invitare la ragazza, con l’intento di sedurla. Giuditta accetta l’offerta di Oloferne, cosciente di potersi mantenere pura anche in una situazione impura; ed è proprio qui che sta la sua forza, nell’essere battagliera e pura. Si tratta di un chiaro messaggio rivolto agli ebrei del II sec. a.C.: la forza risiede nella purezza. In questo frangente emerge ancora tutta la potenza di Giuditta, racchiusa nella sua bellezza, alla cui vista Oloferne resta turbato. Il verbo turbare (dal greco tarassein) nella Scrittura indica la situazione emotiva di fronte alla morte, ed è usato, per esempio, da Giovanni per descrivere lo stato d’animo di Gesù di fronte alla tomba di Lazzaro. La bellezza turba perché può anche fare male, essere mortale. Il verbo non fa altro che anticipare l’ingloriosa fine di Oloferne: il potente signore di eserciti, dopo aver mangiato e bevuto in abbondanza, rimane disteso sul divano, ubriaco fradicio (ecco che torna la dipendenza, in questo caso da vino), e lasciato solo con Giuditta dai suoi servi si addormenta. A questo punto Giuditta può completare il suo progetto: presa la scimitarra di Oloferne (attenzione!, l’arma con cui abbiamo ferito può ferirci), con due colpi gli stacca la testa; quindi consegna la testa alla sua ancella, che la depone in una cesta, ed entrambe, come le notti precedenti, escono dall’accampamento.
L’attenzione va posta sull’idea di progetto: fin dall’inizio Giuditta pensa all’ultima mossa, come in una partita a scacchi; fin dall’inizio bada alla tattica, esercita uno sguardo d’insieme sulle azioni. È il modo di fare tipico del santo, della persona riuscita, che non agisce solo per atti di generosità, ma capisce il peso di tutte le sue azioni e sa metterle in ordine. Chi fa grandi imprese non è mai senza un progetto. La vita richiede spesso la tattica, perché solo per brevi periodi ci è consentito di navigare a vista. La prima idea è sempre vera, ma poi deve diventare progetto. La capacità di ordinare ogni cosa è proprio ciò che ci permette di riconoscere la nostra esigenza di conferma ed evitare che essa venga utilizzata contro noi stessi, come accaduto ad Oloferne.
Luca Malberti
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